archivio | aprile, 2012

Pubblico e privato

Normalmente quando si parla di salute non ho dubbi: in genere preferisco rivolgermi alle strutture pubbliche che credo possano darmi maggiori garanzie in termini di controllo e sicurezza.
Non a caso, due miei Figli su tre sono nati in ospedali pubblici (a Milano), con il ginecologo che mi ha seguito per tutti i 9 mesi. L’ultimo, obtorto collo, ho preferito farlo nascere in clinica (a Roma) per avere la garanzia che mi operasse proprio il mio medico. In entrambi i casi ho sempre trovato personale medico e ausiliario (infermiere, ostetriche…) sempre gentile e disponibile.  E anche dal punto di vista sanitario, grazie al Cielo, è andata molto bene tutte e tre le volte.

Per il dentista però il Marito e io abbiamo optato per il privato. Proprio la scorsa settimana ci siamo andati insieme: io per uno degli appuntamenti di un lavoro programmato, lui per un’emergenza. Siamo entrati e ci ha accolto una confortevole sala d’aspetto con musica diffusa, poltroncine imbottite e giornali e riviste per tutti i gusti. In caso di necessità (che per me è matematica) due toilette sono a disposizione dei pazienti: con sistema auto igienizzante, sapone, salviette e naturalmente acqua calda. E’ uno studio medico in cui ti senti accudito: se hai un’emergenza, come è appunto successo al Marito, c’è sempre un medico a disposizione, almeno per visitarti, valutare e al bisogno curare. Comunque, arrivato il mio turno, mi hanno fatto accomodare nello studio, dove il Dr. C. è arrivato dopo pochi minuti salutandomi calorosamente e informandosi sulla mia salute.

Mentre lavorava mi spiegava pazientemente le fasi del lavoro che stava facendo. Durante la seduta è entrata un’assistente informandomi che il Marito aveva finito, e chiedendomi da parte sua se avesse dovuto aspettarmi. Con la bocca aperta e l’aspiratore infilato dentro le ho fatto cenno che no, non era necessario, grazie. Anche perché doveva sbrigarsi e tornare a casa per accompagnare nostra Figlia dal suo, di dentista. Già perché per i bambini invece abbiamo optato per il servizio pubblico. In particolare la Clinica Odontoiatrica dell’Università, dove ha una cattedra, e quindi insegna e lavora, una nostra cara Amica. Diciamo che dal punto di vista organizzativo assomiglia un po’ a un girone dantesco: intanto funziona solo di mattina, il che implica perdita di giorni di lavoro (nostro) e di ore di lezione (dei bambini); poi ci sono file interminabili anche quando l’appuntamento ce l’hai; altra fila (interminabile anche quella) alle casse per pagare il ticket [e qui ci sarebbe da aprire una parentesi quadra: la cassa è ubicata in un’altra stanza rispetto alla sala d’attesa dove i bambini attendono insieme ai loro genitori di essere chiamati. Ma non potendo essere in due posti diversi contemporaneamente (perlomeno ancora non mi sono attrezzata), è possibile (anzi certo) che alla cassa chiamino il vostro numero, senza che voi lo sappiate a meno di non zompettare velocemente e continuamente da una stanza all’altra. Certo, la soluzione sarebbe semplice: basterebbe mettere il display della cassa anche nell’altra sala d’attesa. Tra l’altro il reparto è anche stato ristrutturato di recente! Una volta mi è capitato di suggerirlo al cassiere perchè arrivai dopo che il mio numero era stato già chiamato, mi è scoppiato a ridere in faccia dicendomi: bella idea signo’, mo mando un’email al capo! E che ci sarebbe di male?]

Comunque, dicevo, a parte l’organizzazione, dal punto di vista clinico mi sembra che i bambini siano seguiti bene: ogni tanto ho a che dire con il loro referente odontoiatra, però non mi sono mai lamentata. Non troppo almeno.

Tornando al tema di cui parlavo all’inizio, nostra Figlia, quel giorno doveva sottoporsi a un intervento chirurgico: la seconda estrazione della gemma del dente del giudizio. La prima l’aveva fatta un mese prima e, poveraccia, aveva sofferto da cani. Quindi diciamo che la sua predisposizione d’animo non era delle migliori. Perdipiù (ma questo lei non lo sapeva) questa volta l’intervento sarebbe stato più complicato.

Dopo un’ora, finita l’operazione, la vedo uscire dalla sala singhiozzando e piangendo a calde lacrime. Il chirurgo, il prof. S. non si è nemmeno affacciato a parlare con noi al termine dell’operazione. Sparito. Volatilizzato.

Mi è sembrato strano: la volta scorsa uscendo, ci spiegò il post operatorio, le attenzioni e le precauzioni da prendere. Invece stavolta nulla: si sono fatti vedere solo studenti sbarbatelli.

In fondo però a pensarci bene non era poi tanto strano: l’altra volta, la nostra amica professoressa, sua collega, entrò in sala, interessandosi dell’operazione, e palesandosi come nostra amica… Stavolta no. Quindi niente raccomandazione, niente normale gentilezza. Quello che privatamente hai incluso nelle parcelle, qui, alla clinica odontoiatrica te lo scordi.

Per concludere, quando mia Figlia si è calmata, mi ha raccontato come era andata durante l’operazione. E questo spiega abbondantemente i motivi del suo pianto isterico: il prof. S., probabilmente anche perché quel giorno non c’erano amicizie di mezzo che lo vincolassero alla normale dose di pazienza che un medico dovrebbe avere, a maggior ragione con i bambini, mentre la operava, come fosse un qualunque macellaio, ai lamenti della piccola paziente le urlava frasi come STAI MUTA!!! oppure NON MI ROMPERE LE SCATOLE!!! Probabilmente questo avrebbe innervosito chiunque, immaginiamoci una bambina, che perdipiù di carattere è anche impressionabile!

Mi domando soltanto cosa succedrebbe in un eventuale studio privato dello stesso prof. S, si comporterebbe ugualmente così, o sarebbe gentile come i tre zeri delle sue parcelle?

Le scarpe di Louboutin tra glamour e design

Questo è un post veramente frivolo, siete avvertiti. Le persone seriose e profonde possono interrompere qui la lettura, se continuano lo fanno a proprio rischio e pericolo.

Lui è Christian Louboutin. È l’uomo che con le sue scarpe dalla tipica suola rossa ha coniugato moda e design e ha condotto molte donne, in tutto il mondo, a ergersi sopra dei vertiginosi tacchi a spillo.

Una mostra che celebrerà i suoi venti anni di carriera si aprirà il primo maggio al Design Museum di Londra. O più precisamente festeggerà il ventennale dell’apertura del suo negozietto a Parigi nel 1992. Da allora ve ne sono in tutto il mondo, compresi i tre a Mosca.

Le sue creazioni sono state definite l’incarnazione dello stile, del glamour, del potere, della femminilità e dell’eleganza. Le sue clienti più famose sono Madonna, Victoria Beckham, Lady Gaga. E chissà quante altre. Si dice che ci siano 3000 donne che possiedono ciascuna 500 paia delle sue scarpe e una che ne ha più di 6000, ovviamente non dicono chi sia. Sicuramente è una che possiede un castello una cui ala è stata interamente utilizzata come scarpiera.

I prezzi ce li possiamo immaginare. Su eBay per un paio di seconda mano secondo piede, ma nella scatola originale, ce la si può cavare con pochi centesimi meno di 500 dollari.

Louboutin smise presto di studiare, a 16 anni lavorò per la compagnia delle Folies Bergère e qui, attaccando bottoni e cucendo piume, iniziò a disegnare delle personalissime e fantasiose scarpe per le showgirl. Quindi passò a occuparsi di design di giardini e finalmente tornò alle calzature lanciando il suo marchio.

Recentemente ha avuto una disputa legale contro Yves Saint Laurent, che a suo dire avrebbe copiato la sua suola rossa per alcune scarpe, chiedendo un risarcimento di un milione di dollari e la sospensione immediata della produzione e della vendita degli accessori contestati. La casa rivale ha ribadito che “le suole rosse sono un ornamento comune nel design di scarpe fin dai tempi di Luigi XIV, nel 1600. Non solo: anche il personaggio di Dorothy nel film Il mago di Oz è inquadrata mentre ne porta un paio”. Siamo in ansiosa attesa della sentenza.

Tornando alla mostra di Londra, viene messo in luce il tocco artistico e teatrale delle scarpe che ha creato: eleganti, sofisticate, ma anche sportive. Alcune, come lui stesso ha ammesso, importabili.

I visitatori avranno anche la possibilità di seguire il processo di realizzazione delle sue scarpe, passo dopo passo, dal bozzetto iniziale, al primo prototipo, fino alla produzione in fabbrica.

Verrà anche illustrata l’influenza creativa che Louboutin ha avuto sui musical parigini e sul cinema.

La mostra si concluderà il 9 luglio. Di seguito alcune delle sue folli creazioni. Divertitevi.

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A New York distribuiscono profilattici e poi li sequestrano

Ogni volta che faccio un intervento sull’infezione da HIV non manco mai di confrontare le nostre politiche sanitarie di prevenzione con quelle di altri paesi e immancabilmente porto come esempio l’amministrazione di New York che ormai da anni offre gratis ai propri cittadini i preservativi col marchio NYC. E mi chiedo quando mai un Alemanno o chi per lui possa mostrare una tale apertura mentale da fare altrettanto. Lo scorso anno gli operatori sanitari di New York City hanno distribuito 37,2 milioni di preservativi, che sarebbe a dire una media di 70 al minuto. Veramente un’azione benemerita, poiché in questo modo si riduce la diffusione dell’infezione tra chi è sessualmente attivo.

Da qualche tempo, tuttavia, si sta verificando un fenomeno paradossale: l’amministrazione con una mano distribuisce preservativi e con l’altra li sequestra in quanto secondo le autorità di polizia rappresenterebbero  la prova che chi li possiede si prostituisce. E la prostituzione è illegale. Capito che logica stringente? A volte vengono addirittura immediatamente bruciati davanti alle persone alle quali sono stati sequestrati.

Difficilmente questa pratica riuscirà a debellare la prostituzione, ma sicuramente rappresenta una seria barriera al sesso commerciale protetto. Diverse persone che si prostituiscono hanno dichiarato di non portare mai con sé i preservativi, e implicitamente di non farne uso, per evitare di essere identificate.

Per fortuna ci sono anche dei giudici che agiscono controcorrente, come Richard M. Weinberg del Manhattan Criminal Court che ha affermato: “In tempi di AIDS e di HIV, se le persone attive sessualmente se ne vanno in giro senza profilattici sono pazze”.

Necrofilia legalizzata in Egitto?

Saranno presto discusse dal neo eletto parlamento egiziano, a maggioranza islamista, due proposte di legge che tenderei a definire raccapriccianti.

La prima abbassa l’età minima per sposarsi a 14 anni, la seconda consente al marito di fare sesso con il cadavere della moglie fino a sei ore dal decesso. Quest’ultima proposta è nota come “rapporto dell’addio”. La notizia è stata data da Al Arabiya News.

D’altra parte c’è poco da meravigliarsi, visto che lo scorso anno in Marocco Abdelbari Zemzami, eminente studioso islamico e membro dell’establishment religioso, promulgò una fatwa che permetteva a un marito vedovo di avere rapporti sessuali con la moglie morta. Egli, tuttavia, non indicò fino a quante ore dopo la morte la moglie dovesse sottostare al dovere coniugale.

Zemzami giustificava questa regola affermando che poiché una coppia di buoni islamici si incontrerà di nuovo in paradiso, la morte, che non altera il contratto matrimoniale, non deve essere di ostacolo per il desiderio del marito di fare sesso con il corpo della moglie da poco deceduta.

Il National Council for Women d’Egitto ha rivolto un appello ai parlamentari affinché non approvino quelle due leggi che, a suo dire, renderebbero ancora più marginali le donne e minerebbero il loro status con degli effetti negativi sul futuro sviluppo del paese.

Tuttavia, molti membri del parlamento egiziano sono stati accusati di lanciare attacchi contro i diritti delle donne. Per esempio, vorrebbero abrogare alcune, se non molte, leggi che danno spazio ai diritti delle donne, quale quella, approvata circa dieci anni fa grazie all’intervento della moglie di Mubarak, che consente loro di divorziare senza sottostare ai veti del marito. Prima di questa norma le donne dovevano affrontare anche 10/15 anni di battaglie legali per riuscirci.

Noi continueremo a seguire questa vicenda e vi aggiorneremo.

Post numero 1000!!!

Questo è il post numero 1000!!! Mille a partire dal primo pubblicato nel lontano aprile 2009 giorno in cui questo blog è partito.

Sono stati mille come

le bolle blu e altrettanto leggeri

i giorni di te e di me, ma meno melensi

come i garibaldini, ugualmente tosti e coraggiosi (non dovremmo essere noi a dirlo, in verità)

come le miglia della corsa, ma con una maggiore predilezione per la lentezza

come le proroghe del decreto e altrettanto multiformi.

Speriamo che qualcuno di essi vi abbia interessato, divertito, indignato, fatto riflettere, insomma vi abbia fatto trascorrere qualche momento piacevole.

E dopo questi 1000 post il Blog delle Ragazze chiuderà spera di proporvene altrettanti altri che siano ugualmente apprezzabili.

E non possiamo concludere senza un grazie mille coccobille a tutti coloro che ci hanno seguito fino a qui con simpatia e affetto.

Non andate a dormire se siete di cattivo umore

Adoro gli Scienziati, un certo tipo di Scienziati, perché ci danno tanto materiale su cui riflettere. Prendi per esempio questi Neuroscienziati dell’Università del Massachusetts: sono partiti da un vecchio adagio che esorta a non andare a letto di cattivo umore, altrimenti le emozioni negative si consolidano e il risentimento cresce. Siccome non lo conoscevano in molti, sono andati anche a scomodare la lettera di Paolo agli Efesini nella quale si afferma: “Non tramonti il sole sopra la vostra rabbia” (4:26). E si sono detti: facciamoci una bella ricerca ché poi la pubblichiamo su The Journal of Neurosciences, vediamo che succede se si va a dormire con animo turbato o con emozioni negative.

Hanno dunque reclutato 106 tra uomini e donne e li hanno esposti a immagini che provocavano emozioni diverse: in alcuni casi negative, per esempio con scene sconvolgenti di incidenti, in altri positive o neutre. Il giorno seguente furono mostrate le stesse foto più altre nuove: a una parte di loro al mattino dopo una notte di sonno, agli altri alla fine di una giornata trascorsa da svegli.

Da tutto questo emerse che lo stare svegli aveva smussato la risposta emotiva di fronte alle stesse immagini disturbanti, ma al vederle dopo aver dormito la notte le reazioni erano state forti come alla prima visione, suggerendo agli Scienziati che il sonno aveva “protetto” le emozioni, le aveva mantenute vive.

Ulteriore riflessione dei nostri ineffabili Scienziati alla luce di questi risultati. Se dopo che abbiamo avuto un’esperienza forte non riusciamo a dormire (e continuiamo a riviverla dolorosamente, aggiungo io)  dobbiamo essere lieti perché quello non è altro che un modo architettato dal nostro brillante cervello per impedire ai ricordi spiacevoli di impiantarsi nella memoria. Non ci avevate pensato, dite la verità.

Dimmi come ti vesti…

È noto ormai da tempo che il nostro modo di vestire influenza la percezione che gli altri hanno di noi. Studi hanno mostrato che le donne che andavano a un colloquio di lavoro con abiti di taglio maschile avevano più probabilità di essere assunte. E insegnanti vestiti in modo formale venivano ritenuti più intelligenti di quelli che indossavano abiti casual.

Una ricerca recente, però, realizzata alla Northwestern University di Evanston e pubblicata su The Journal of Experimental Social Cognition, ha messo in evidenza un sorprendente ulteriore effetto dei nostri vestiti: essi condizionerebbero anche le nostre abilità cognitive.

E così, se indossiamo un camice bianco che riteniamo essere da medico la nostra capacità di concentrazione aumentano notevolmente e le nostre performance migliorano, ma se indossiamo lo stesso camice che ci è stato detto essere da pittore non otteniamo alcun miglioramento.

I nostri abiti, concludono gli autori dello studio, invadono il nostro corpo, ma anche la nostra mente, influenzando il nostro stato psicologico e le nostre sensazioni. Noi pensiamo non solo con il cervello, ma anche con le nostre esperienze fisiche, inclusi, sembrerebbe, gli abiti che indossiamo.

Potrei provare ad andare al lavoro vestita da Wonder Woman.

Tra il pubblico di Servizio Pubblico

Giovedì scorso sono andata ad assistere tra il pubblico alla trasmissione di Michele Santoro “Servizio Pubblico”.

Perché mai? vi chiederete. Cosa avevo da espiare? Con cosa mi ero drogata?

E’ successo in realtà che alcuni colleghi di ufficio mi avevano chiesto di partecipare alla trasmissione dove si sarebbe parlato anche della questione Vodafone.

E così, ALicE, che non si tira mai indietro, indossata la maglia rossa d’ordinanza (rosso Vodafone, naturalmente!), dopo essere passata a casa della mamma per farsi prestare un golf rosso, che solo con la T-shirt si gelava, alle 18.15 (ricordatevi quest’orario come inizio della tregenda) si incammina verso gli studi di cinecittà per assistere insieme a una ventina di colleghi, anche loro in maglia rossa, alla diretta di una trasmissione che non aveva mai visto e della quale detestava il presentatore, Michele Santoro, e il vignettista ufficiale, Vauro, che non risparmia mai frecciate velenose contro Israele.

Alle 19.00 arriviamo a Cinecittà. Lì avrei già dovuto capire la mala parata e andarmene: la mia amica sindacalista, infatti, mi avvisa che noi non eravamo “in programma”: semplicemente la redazione era stata avvisata della nostra presenza in maglia rossa (UUUUHHHH!!! PAURA, EH?), ma non ci avevano assicurato nulla in merito alla possibilità di intervenire. Non so perché, ma decido di restare. Ci mettiamo in fila per farci accreditare e firmare le liberatorie di legge, ed entriamo nella città del cinema. Che tristezza! In altri paesi (ma anche in altre città italiane, vedi Torino, per esempio) nell’ottica di una riqualificazione industriale, ne avrebbero fatto un gioiellino da mostrare al pubblico, magari (magari) guadagnandoci anche. Qui invece hai la sensazione di un vero mondo scomparso. Ma queste riflessioni meritano un post a parte.

Sono le 19.30 e siamo in coda fuori dal teatro 3, quello da dove andrà in onda la trasmissione. Alziamo gli occhi al cielo, senza nessun intento religioso o divinatorio, ma solo per tenere d’occhio il meteo, e infatti notiamo nuvole grigie e minacciose che non lasciano presagire nulla di buono.

Neanche a dirlo, dopo pochi minuti comincia a piovere. Ma il teatro non apre. Restiamo stipati sotto una tettoia in 300/400 persone, non so quantificare con precisione,  con gente che si ingozzava un tramezzino al volo e la maggior parte che fumava… tanto eravamo all’aperto! Io, naturalmente, né l’uno, né l’altro.

Intanto il teatro 3 non accennava ad aprire.

Alle 20.00, finalmente, con una parte degli astanti già abbondantemente bagnata, entriamo. Ci accoglie un corridoio dalle pareti sporche e scrostate, illuminato malamente da una tristissima luce al neon.

Ci chiedono di lasciare le borse al guardaroba. Così, in fretta, mi ficco in tasca chiavi di casa, carte di credito, telefono e un taccuino (non si sa mai) e ci mettiamo in fila al guardaroba. Poi, altra fila, altro giro, altro regalo, pazientemente aspettiamo il nostro turno per entrare nel teatro vero e proprio e prendere posto. Un energumeno tatuato regola il flusso del pubblico facendo entrare poche persone alla volta e assegnando loro i posti. Noi abbiamo chiesto (almeno quello) di essere seduti vicini. Sapete la risposta? Eh no! Fareste troppo macchia, così tutti rossi! Ma come??? Ci siamo vestiti così apposta! E così qualcuno si è infilato la felpa, qualcun altro la giacca e abbiamo ottenuto di essere divisi in due gruppi. Alla faccia della maglietta rossa, che non c’è colore che mi stia peggio addosso.

La riflessione che mi si è subito fatta strada rispetto al trattamento ricevuto, è che il pubblico veniva trattato come se fosse pagato. Come se fosse lì per lavorare. Anzi peggio: per chi lavora c’è (o dovrebbe esserci) più rispetto! Noi sembravamo oggetti da arredamento da tenere un po’ al freddo e alle intemperie, per poi farli entrare e metterli a sedere a casaccio.

Ma loro, del pubblico in sala hanno bisogno eccome! Pensate il mattatore Santoro che parla davanti a una telecamera e ai pochi politici invitati. Lui ha bisogno della folla come il pane! E a proposito di pane, il mio stomaco (vuoto dall’ora di pranzo) cominciava a borbottare.

Intanto, durante le numerose file, abbiamo cominciato a guardare sugli smartphone il programma della serata: il tema era “Spazzare via tutto” e si sarebbe parlato di antipolitica. Era prevista: un’intervista a Beppe Grillo; il collegamento con Francesco Speroni (europarlamentare della Lega); mentre in studio sarebbero stati ospiti il sindaco di Firenze, Matteo Renzi,  Norma Rangeri, direttore del Manifesto, e Stefano Cappellini, del Messaggero.

Alle 21.05 finalmente entra Santoro sule note di Va pensiero! E rendetevi conto che a quel punto avevo già perso quasi 3 ore del mio tempo!

Un servizio via l’altro; la bufera sulla Lega; ricostruzioni con i disegni sulle intercettazioni telefoniche, alternate a interviste a vari politici, collaboratori e faccendieri leghisti; gli interventi di Rizzo e Stella, (quelli, sì, abbastanza interessanti); anche Cappellini ha detto delle cose sensate; mentre Renzi, che già non mi piaceva prima, ha confermato che la prima opinione è quella giusta: demagogo, populista, un po’ subdolo (quanto ci ha tenuto a dire che lui, del PD, ha messo in nonsoquale posizione che ha a che fare coi parcheggi di Firenze, uno di Forza Italia! Ma va? Veramente? Non lo avremmo mai immaginato! Specie dopo che sei andato a cena ad Arcore! Che vergogna!) Speroni invece dava il meglio di sé nei fuori onda, dove sbadigliava a bocca spalancata (non visto in TV) e si stropicciava gli occhi con la palpebra che gli calava. Ma come dargli torto? Mi si chiudevano letteralmente gli occhi anche a me, dalla noia e dal continuo parlarsi addosso! Da casa non avrei visto nemmeno 10 minuti di trasmissione: neanche pagata! Avevo davanti un orologio digitale con l’ora… sembrava non si muovesse. Il tempo si era fermato. A tratti temevo che la cameraman ambulante mi riprendesse (cioè in tutti i sensi: che mi rimproverasse o che mandasse il mio sonno in diretta TV). Per tenermi sveglia ho finito il mio pacchetto di gomme: una appresso all’altra, perché appena andava via il sapore della menta dovevo subito mangiarne un’altra per non rischiare di assopirmi.

Il castigo divino è finito a mezzanotte e mezza, senza ovviamente che la questione Vodafone sia stata non dico trattata, ma almeno nominata da nessuno. E oltretutto il programma si è concluso con l’immancabile frecciata di Vauro diretta a Israele! Accanto a me c’era un troglodita che si ammazzava dalle risate a sentire le sue invettive antisemite… pardon: antisioniste!

Una volta liberi però la frase più bella l’ha detta una mia collega, una ragazzetta verace verace di 25 anni, che con la faccia atterrita e la voce spenta ha detto: “Questo si chiama sequestro di persona!”

Parole sante!

Homeland – Caccia alla spia

Ho appena terminato di vedere l’ultimo episodio della prima stagione di Homeland – Caccia alla spia, una serie TV USA, ispirata a quella israeliana Hatufim, trasmessa da FOX.

Ve la consiglio fortemente. Voi potreste pensare: “E ce lo dice ora che è finita?” Vero, ma sicuramente a breve verrà data in chiaro in qualche canale generalista e così chi l’ha persa potrà rimediare.

Il tema centrale è il terrorismo in un paese fortemente ferito dall’attentato delle Twin Towers, ma anche l’ambiguità, il sospetto e il ruolo dei servizi segreti.

È la storia del sergente dei Marine Nicholas Brody tornato dall’Iraq dopo una prigionia di otto anni, che si interseca con quella di Carrie Mathison, un’agente della CIA determinata e inarrestabile, con un disturbo bipolare che tiene segreto per evitare la rimozione dal servizio.

In un crescendo di tensione, tra dubbi instillati nei telespettatori e colpi di scena, puntata dopo puntata, 12 in tutto, si arriva all’ultimo episodio, di durata maggiore degli altri, dove accade di tutto e che si segue col fiato sospeso fino all’ultima drammatica scena. Che lascia stupefatti e desiderosi di cominciare subito la seconda serie, che invece sarà trasmessa solo in autunno negli States.

I personaggi sono ben disegnati e molta attenzione viene posta all’analisi della loro psicologia.

I due protagonisti offrono un’interpretazione impeccabile. Lei è Claire Dones, vincitrice del Golden Globe 2012 come migliore attrice protagonista di una serie drammatica, lui Damian Lewis, già visto nella serie Life, che invece ha avuto la sola nomination. La serie stessa ha vinto il Globe come migliore serie drammatica. Accanto a loro un pacato Mandy Patinkin, l’indimenticato Gideon delle prime stagioni di Criminal Minds, è Saul Berenson, un collega di Carrie.

Fate di tutto (vabbe’ non proprio tutto tutto) per vederla: è da non perdere. E poi mi direte.

Finanziamenti & rimborsi

Ho letto le ultime, o penultime, dichiarazioni di Bossi riportate da tutti o quasi i giornali e i siti in rete.

Smettendo per un attimo, forse, gli abiti del malato gabbato dalle persone di cui si fidava, familiari compresi, ha ripreso di nuovo quelli del leghista celodurista e dice, o urla, o biascica:

“Soldi nostri, non è reato”.

“Un partito può benissimo buttare i soldi dalla finestra”.

Leggo anche Michele Serra ne L’amaca su Repubblica di ieri, che in un impeto garantista o semplicemente per distinguersi dal coro, scrive:

“Che un partito politico (la Lega) paghi al suo capogruppo (Calderoli) l’affitto di un appartamento a Roma, non è uno scandalo. Specie se raffrontato ai tanti scandali veri, e disgustosi, venuti alla luce a proposito dell’uso dei fondi pubblici destinati ai partiti”.

Quindi se ci sono scandali più eclatanti quelli minori non devono destare riprovazione. Ma lasciamo perdere e torniamo alle affermazioni di Bossi.

Sarebbe ora di finirla con questi giochini delle tre carte, con questa manipolazione della realtà, con queste frittate rivoltate.

Andiamo a leggere la famigerata legge 10 dicembre 1993, n. 515, Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, quella promulgata a pochi mesi, era l’aprile precedente, dal referendum che aveva abrogato il finanziamento pubblico dei partiti. Quello che ci interessa qui è l’articolo 11 sulla tipologia delle spese elettorali. Perché se noi dobbiamo “contribuire” alle spese elettorali è giusto che venga indicato cosa deve essere compreso tra queste.

E l’articolo recita:

1.  Per spese relative alla campagna elettorale si intendono quelle relative:

a) alla produzione, all’acquisto o all’affitto di  materiali  e  di mezzi per la propaganda;

b) alla distribuzione e diffusione dei materiali e dei mezzi di cui alla  lettera  a),  compresa  l’acquisizione di spazi sugli organi di informazione, sulle radio e televisioni private,  nei  cinema  e  nei teatri;

c)  all’organizzazione  di  manifestazioni di propaganda, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, anche di carattere sociale,  culturale e sportivo;

d)    alla   stampa,   distribuzione   e   raccolta   dei   moduli, all’autenticazione delle  firme  e  all’espletamento  di  ogni  altra operazione  richiesta  dalla  legge  per la presentazione delle liste

elettorali;

e) al  personale  utilizzato  e  ad  ogni  prestazione  o  servizio inerente alla campagna elettorale.

2.  Le  spese  relative ai locali per le sedi elettorali, quelle di viaggio  e  soggiorno,  telefoniche  e  postali,  nonché  gli  oneri passivi,  sono  calcolati in misura forfettaria, in percentuale fissa

del 30 per cento dell’ammontare complessivo delle spese ammissibili e documentate.

La casa al Gianicolo di Calderoli rientra nelle spese che possono essere rimborsate? NO. Come non vi rientrano lingotti e diamanti e profumi e balocchi. O Audi e multe pagate.

Non credo si debba aggiungere altro.

E modestamente riteniamo di non rientrare tra quelle voci che Serra definisce poco più avanti “isteriche e violente, già disposte, in cuor loro, a sputare sull’incatenato e ad applaudire il boia”.