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Intervista a Mary B. Tolusso

Autrice de L’imbalsamatrice, suo  primo romanzo (ci auguriamo di una lunga serie), che mi ha incantato la scorsa estate e del quale si parla dettagliatamente qui, Mary B. Tolusso ha scritto libri di poesia (Cattive maniere,  Campanotto ed.; L’inverso ritrovato, Lietocolle, Premio Pasolini 2004). Sue poesie sono uscite anche su varie riviste tra cui Nuovi Argomenti, Almanacco dello Specchio Mondadori, Daemon, Gradiva. Inoltre, scrive di teatro e letteratura su riviste e quotidiani.

Detto doverosamente tutto questo, a noi piace andare un po’ più a fondo. E così abbiamo rivolto a Mary B. alcune domande per i lettori del nostro blog a cui lei ha accettato di rispondere diffusamente con grande disponibilità. La ringraziamo molto per questo.  

Questa domanda te l’avranno posta in tanti: ci uniamo al coro. Come è nata l’idea di N., la protagonista de L’imbalsamatrice che fa l’apprendista in un’agenzia di pompe funebri? E da dove hai tratto le conoscenze per entrare nei dettagli del suo lavoro?

L’idea nasce semplicemente dal fatto che sono cresciuta in un’agenzia di pompe funebri. Un po’ di cose le ho apprese lì, ma per la maggior parte dei dettagli che riguardano la tanatoprassi, cioè l’arte del trucco e dell’imbalsamazione, mi sono impegnata in un lavoro di ricerca e di studio sostenuti da manuali e riviste italiane ed estere.

Come è stato per una bambina vivere così a contatto con la morte?

È una questione che ci riguarda tutti, non credo di aver subito alcuna formazione extra sull’argomento, anche perché la morte degli estranei non ci colpisce particolarmente. Se fossi cresciuta a casa di un fruttivendolo avrei giocato a vendere frutta e invece mi divertivo a giocare con le imbottiture dei cofani. Le stoffe sono bellissime, di raso azzurro, rosa, bianco. Bastava agghindarsi e stringere una cintura in vita e ne usciva un abito del ’700. Travestirsi forse era molto più divertente che giocare al bottegaio.

Il tema della morte, così come quello della vecchiaia, sembrerebbe oggetto di rimozione collettiva. È così secondo te? E quali possono esserne le conseguenze?

Soprattutto lo è oggi che viviamo in un mondo completamente “igienizzato”, dedito a rimuovere qualsiasi difetto, figuriamoci la morte. L’Imbalsamatrice è anche una risposta ironica a un’epoca in cui tutto deve essere bello, adeguato, perfetto. Quindi perché non rendere belli anche i morti? In più oggi tutto si estetizza, la politica nello spettacolo, il sesso nella pubblicità, insomma tutto perde la sua specificità. Però quando tutto è politico niente è più politico, quando tutto è sessuale niente è più sessuale, quando tutto è estetico niente è più bello o più brutto. Le conseguenze, a mio avviso, hanno a che fare con la rimozione dei contrasti, e se non c’è contrasto non c’è dinamica, insomma un tassello in più verso l’appiattimento.

Un altro tema de L’imbalsamatrice è l’amicizia tra donne, una rete solidale cui si può far ricorso in ogni momento, un porto sicuro. Quanto è importante, secondo te, che possa rappresentare anche uno spazio di leggerezza?

In realtà le donne dell’Imbalsamatrice assomigliano anche agli uomini, mi piaceva l’idea di creare dei personaggi ibridi, indebolendo il genere sessuale e mantenendo vivi i temperamenti. Lisa, N., Silvia, Beatrice potrebbero essere anche dei ragazzi, non hanno aneliti particolarmente femminili. La leggerezza invece è precisa e ambigua allo stesso tempo, com’è scritto a un certo punto nel romanzo: Gli escrementi sono l’unico indizio di una dimensione interiore degli uomini, credo l’abbia detto Lacan, non proprio con questa formula. Questo per dire che il profondo viaggia in superficie, ci conosciamo tramite l’esterno, non l’interno, ma la “profondità”, nel linguaggio comune, con tutte le sue derive moralistiche, è uno di quei miti che mi stanno sulle palle. Tutti vogliono essere profondi, interiori, spirituali senza capire che la “leggerezza” è ciò che di più profondo abbiamo a disposizione, anche perché dà per acquisite e superate tutta una serie di analisi introspettive. È un passo in più, non in meno.

“La vita può cambiare” afferma la protagonista al termine del romanzo. Un messaggio di fiducia e ottimismo. In questi tempi è possibile condividerlo?

Che succede di questi tempi che non sia già successo nel corso dei secoli? Non mi interessano le riflessioni politiche, i disagi economici, in qualsiasi epoca si muore, non è mio compito riflettere sulle modalità giuste o sbagliate, non scrivo romanzi storici o storico politici. La frase del romanzo sopracitata è il seguito di una precisa formula chimica: quanto tempo ci mettono le ossa a imbiancare. Se c’è un senso per me è quello di cogliere e guardare con lucidità al fatto che non siamo eterni e cercare quindi di “distrarci” nel miglior modo possibile. È una poetica alla Wislawa Szymborska, la morte come fonte di vitalità. Mettiamola così: se domani mi diagnosticano un tumore sai quanto me ne frega che devo pagare più tasse? Spesso sono stata accusata di individualismo, ma io credo che nessuno possa davvero interessarsi all’altro se prima non è interessato a se stesso. Altrimenti sarebbe martirio e io non penso che i martiri siano modelli da imitare. L’auto-repressione genera mostri, io la vedo così.

Milan Kundera ha scritto: “Essere un cadavere è il più insopportabile degli oltraggi. Ancora un istante prima uno era un essere umano protetto dal pudore, dal sacro rispetto per la nudità e l’intimità, ed ecco, basta che sopravvenga l’attimo della morte perché il suo corpo sia improvvisamente a disposizione di chiunque perché sia possibile denudarlo, sventrarlo, scrutare le sue viscere, chiudersi il naso davanti al suo fetore, sbatterlo in ghiacciaia o nel fuoco”. Forse questa è la preoccupazione di molti. Non credi che la protagonista del tuo romanzo mostri che invece si possa fare tutto questo con delicatezza e rispetto?

In un certo senso sì, anche se non è la sua reale preoccupazione. Talvolta N. non si fa scrupoli a buttare viscere umane ai topi e non vengono risparmiati alcuni effetti terrificanti che possono accadere dopo la sepoltura, ma nulla è gratuito, cause ed effetti cruenti vengono spiegati anche scientificamente. È vero però che nella maggior parte dei casi il rapporto con i cadaveri è lieve, talvolta quasi lirico, sempre all’interno di uno stilema in contrasto, tragicomico.

Tu vieni dal mondo della poesia, hai pubblicato libri e hai partecipato ad antologie. Ho trovato fulminante, seppure sconfortante, la descrizione che dai di quel mondo in Lettura poetica: “È una serata fortunata, la sala/ conta almeno otto uditori./Dalla finestra milioni di camere/vuote con le tv accese./[…]/ Nell’orlo di una sedia grigia una ragazza sfila/la fibra e un uomo chiude gli occhi/pensando alla partita./[…]/«Che ora è?» chiede un marito in prima fila.” Il grande pubblico è ancora così lontano dalla poesia?

Il grande pubblico conosce a malapena Alda Merini e solo perché è andata in tv. Il grande pubblico non arriverà mai alla poesia, e io per poesia intendo un testo scritto per essere letto, escludendo tutte le modalità spettacolari, performatiche che stanno avanzando. Il testo scritto per essere esclusivamente letto, dunque, senza musica o altri sostegni multidisciplinari. È un genere destinato a rimanere isolato, anche se da dietro le quinte fa da apripista a tutti. È lì che pescano i grandi scrittori, è lì che si esercita la maggiore sensibilità al linguaggio e si impara a dominare la parola. Il grande pubblico vuole storie facili, e sempre di più, per cui escludo qualsiasi futuro avvicinamento al verso. Anche perché, per il discorso fatto poc’anzi a proposito della mancanza di contrasti e della costante scomparsa delle specificità, stiamo perdendo l’idea di metafora. Perché ci sia metafora c’è bisogno che una cosa ne rappresenti un’altra e le continue contaminazioni mettono fine a questa possibilità, alla possibilità che un lettore colga le metafore. Tuttavia non capirò mai le geremiadi di alcuni poeti per la mancanza di popolarità della poesia. C’è questa fissazione che la poesia possa rendere un individuo migliore. Ma dove sta scritto? Ma chi l’ha deciso? Prima che un individuo maturi una certa sensibilità al linguaggio artistico, deve maturare una certa sensibilità alla vita. Non è leggendo Leopardi che uno stronzo diventa meno stronzo. Se lo è, magari Leopardi le insegna ad esercitare meglio la sua meschinità. Non so se ricordi una delle scene de “Il silenzio degli innocenti”, l’ultimo incontro tra Hannibal Lecter e Clarice. Lui sta leggendo una rivista che si intitola Poetry, e non è che Hannibal fosse, come dire, una persona di cuore.

Come è nato il passaggio dalla poesia al romanzo?

Non mi sono posta il problema. A un certo punto volevo raccontare una storia e non stava dentro i 14 versi, così ho smesso di andare a capo prima della fine della riga.

Quali emozioni provi quando senti che un lavoro, che sia una poesia o un romanzo, è concluso?

C’è un senso di liberazione, ma anche un calo di tensione. Non è tuttavia paragonabile la fatica e la disciplina che impone un romanzo, rispetto a una poesia, anche se forse è più probabile scrivere un bel romanzo che una bella poesia. In ogni caso non c’è un’emozione precisa, piuttosto un calo emotivo, quindi da lì a poco so che cercherò qualcosa d’altro per rimanere in cima a una certa emotività.

Quali sono gli scrittori che ami maggiormente?

È difficile rispondere perché gli autori cambiano in base ai miei cambiamenti. Sicuramente Proust. Poi Philip Roth, Houellebeq, Welsh, Bernhard, Safran Foer, Eugenides, Franzen. Riconosco l’eccellenza tecnica di Ford, ma non mi coinvolge. Ultimamente sono sedotta da Hermann Broch.

Stai lavorando a un nuovo romanzo in questo momento?

Sì.

Che libro stai leggendo in questo momento?

Kalooki Nights di Howard Jacobson e ho ripreso in mano La prigioniera. Proust c’è sempre.

Quali sono le tue passioni oltre la scrittura?

Mi piace la moda, ma è difficile individuare stilisti in grado di inventarla. Forse Marc Jacob, Tom Ford e il giovane Antoine Peters mi sembrano gli unici creativi del momento. Ormai tutto è look, un puro effetto speciale senza volontà di significazione, questi invece fanno moda coniugando ironia e stile.

Quale musica ami ascoltare?

Musica pop e funky soprattutto, con qualche breve incursione verso la lirica e la sinfonica. Ma più della musica mi piace fare shopping.

Quali consigli daresti a chi volesse cimentarsi nel romanzo o nella poesia?

Non sono sicuramente in grado di dare consigli, l’unico suggerimento che mi viene in mente è di mettersi lì e scrivere senza parlare troppo di quello che si vorrebbe scrivere. Sai come la pensava Svevo: “è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente”.

Intervista a Melania G. Mazzucco

Questo è un coming out: Melania G. Mazzucco è la mia scrittrice italiana preferita. Potete quindi immaginare il piacere che ho provato nell’incontrarla e nell’osservare la sua pronta disponibilità a rispondere alle nostre domande per questo blog. E di questo le siamo molto grate.

Per quelle due-tre persone che non la conoscono dirò che è romana e che ha esordito nel 1996 con Il bacio della Medusa (Baldini & Castoldi). I suoi libri successivi sono stati La camera di Baltus (Baldini & Castoldi) e Lei così amata (Rizzoli). Nel 2003 vince il premio Strega con Vita (Rizzoli), romanzo straordinario sull’emigrazione italiana in America nel primo Novecento. Segue Un giorno perfetto (Rizzoli) da cui è stato tratto un film diretto da Ferzan Ozpetek con Isabella Ferrari, Valerio Mastandrea e Stefania Sandrelli. È del 2008 La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli) e dell’anno scorso Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Biografia di una famiglia veneziana (Rizzoli).

Passiamo ora all’intervista: le sue risposte sono ricche e profonde, piene di poesia e di passione. Godiamocele.

Quali emozioni prova quando ha chiaro che il libro che sta scrivendo è terminato?

Tristezza, perché so che non abiterò mai più il mondo nel quale ho vissuto per anni, perché non sarò mai più vicina a quei personaggi, non sentirò più le loro voci, non li conoscerò mai più intimamente di così, non ritroverò mai più l’incanto della comunanza.

Timore, perché li lascio nudi e indifesi agli altri.

E’ come affidare alle correnti dell’oceano un messaggio in bottiglia, senza sapere se le onde la porteranno mai a riva, se il messaggio sarà mai aperto, se quel giorno sarà ancora decifrabile.

Però, quando il libro viene poi pubblicato, e a poco a poco letto, e il messaggio decifrato, non c’è più né tristezza né timore: c’è spesso la gioia di condividere un mondo, un sentimento, una vita.

In Vita lei racconta la storia di suo nonno Diamante e di Vita che arrivano in America nel 1903, rispettivamente a 12 e 9 anni. Quanto c’è di vero e quanto di inventato in questo romanzo?

La storia nasce dai racconti che mio nonno (morto molti anni prima della mia nascita) aveva fatto ai suoi figli, e i suoi figli, in epoche diverse, a me. Vero il viaggio, vera l’esperienza dell’emigrazione in America, vere le disavventure con la Mano Nera, il lavoro alle ferrovie come waterboy, anche il personaggio della ragazza amata, la bomba al ristorante, vera la seconda guerra mondiale di Dy, vero perfino il viaggio di Vita a Roma nel 1950, quando, con l’occasione dell’anno santo, lei, vedova, venne a riprendersi il fidanzato di una vita… Perfino tutti i personaggi secondari sono veri – dallo ‘zio’ arricchito e manesco fino al cugino ‘zio Tom’ che sposa Vita. Vere le ricerche d’archivio, vere le interviste. Eppure, se dico che in Vita c’è molto di inventato, dico ugualmente il vero. Perché passando di bocca in bocca i fatti sono a poco a poco cambiati, e talvolta in modo radicale (per esempio uno stesso episodio mi è stato raccontato due volte, e in una ne era protagonista mio nonno, nell’altro suo cugino). Perché nomi, date e luoghi non sempre coincidono, perché i ricordi svaporano, e la memoria di ciascuno lavora e crea. Perché ciascuno dei protagonisti ha elaborato col tempo una propria versione della storia e una propria verità – che rispecchiava la sua personalità, la sua cultura e la sua visione del mondo, e io, scrivendo, ho dovuto a mia volta scegliere la verità a me più consona. Ed essere a mia volta libera e creativa come la memoria altrui. Insomma, in Vita verità e invenzione non sono due termini antitetici, ma dialettici. La verità genera invenzione, e talvolta il contrario: l’invenzione genera verità (il romanzo legge nelle zone d’ombra dei fatti, legge le intenzioni, i desideri, i sogni, che il materiale d’archivio tace)…

L’epigrafe in Vita è: “L’America non esiste. Io lo so perché ci sono andato” (dal film Mon oncle d’Amerique di Alain Resnais). Che è l’America?

Per me l’America è la valigia piena di parole che Diamante porta via con sé. L’America non è tanto un paese quanto una metafora: il luogo dove mio nonno (e tanti come lui), impara il significato di parole come speranza, dignità, felicità. La consapevolezza, insomma, di non essere condannato dal destino alla miseria e all’ignoranza, ma di avere il diritto di credere a un’altra vita. Di cercarla, e di lottare per meritarla. Dove, non importa: non necessariamente in America, che in fondo è solo un paese come un altro. L’America è ovunque, purché sia dentro di te.

Perché, secondo lei, l’Italia che è stata terra di emigranti si mostra oggi così intollerante nei riguardi di chi arriva da altri paesi in cerca di una vita migliore?

E’ stato il dispiacere più grande degli anni di interviste e ricerche quando preparavo Vita: scoprire che l’emigrante di un tempo non riusciva a riconoscersi e rispecchiarsi negli emigranti di oggi. Che lo sfruttato era diventato sfruttatore, la vittima di razzismo razzista, il lavoratore sottopagato imprenditore sottopagatore e così via.

Penso che il problema sia questo: finché non si accetta l’idea che l’Altro è identico a noi, si rifiuta l’analogia e non scatta né solidarietà né empatia. Penso che sia un problema di ‘immagine’: l’Altro oggi viene presentato sottolineando le diversità, per cancellare le somiglianze. L’Altro è estraneo: criminale, violento, barbuto, fanatico, oppure ignorante, furbo, ladro, sfaticato, oppure ancora primitivo, sporco e così via.

Del resto anche gli italiani sono stati descritti così, quando erano l’Altro – per tenerli a distanza dalla coscienza, e non doversi interessare alla loro sorte. Non si compiange un immigrato nero morto in un aranceto se lo si presenta come un selvaggio che vive nella spazzatura. Si compiange solo colui in cui si riconosce l’immagine di noi stessi. 

La protagonista di Un giorno perfetto è una donna molestata e aggredita dal marito che non accetta la fine del suo matrimonio. Perché, secondo lei, storie di questo tipo si verificano con tanta frequenza e arrivano così spesso sulle pagine della cronaca nera?

La violenza sulle donne c’è sempre stata, tant’è che nel libro Jacomo Tintoretto e i suoi figli ho ricostruito la storia di un processo del 1626 in cui una donna chiede alla giustizia di essere difesa dal marito che la picchia e la umilia: e, per quanto possa sembrare sorprendente, la giustizia (ecclesiastica a quel tempo), valutati i fatti le dà ragione, concedendole il divorzio. Gli uomini hanno sempre considerato la moglie come una proprietà da difendere, e hanno reagito spesso con la violenza alla fine dell’amore (o del controllo). Quella che oggi è cambiata è la consapevolezza delle donne e la volontà di veder rispettati i propri diritti. In più, la posizione sociale dell’uomo è diventata più debole, e ciò ha accresciuto il suo smarrimento. Il fenomeno della violenza familiare è aumentato con la crisi della famiglia tradizionale, e si è verificato un fenomeno del tutto nuovo: la violenza sui bambini. Questa mi pare la differenza davvero sostanziale. In quest’ultimo decennio, come la cronaca testimonia, è frequente l’omicidio dei propri figli da parte di padri non rassegnati alla fine del matrimonio (o di madri depresse). Nel 1626 l’idea di uccidere i figli per vendicarsi del divorzio della donna o dell’abbandono del marito sarebbe stato inconcepibile: i figli erano il futuro, e una ricchezza di entrambi, qualunque fosse il destino della famiglia.

Tra i protagonisti di Un giorno perfetto vi è anche Roma, raccontata nella sua quotidianità e descritta fedelmente come in un film. Che rapporto ha con la sua città?

 Amore per ogni pietra, scorcio, palazzo, basilica, portone, vicolo. Per la sua storia e per il suo futuro. Amore per l’isola Tiberina e la chiesa di Sant’Agostino, il salone della biblioteca Angelica, le catacombe di Priscilla, perfino per gli stradoni tristi di periferia abitati solo da macchine e lampioni fulminati.

Amore per i musei dimenticati dalle guide, dove capiti solo per caso, le chiese dove c’è Bernini o Caravaggio, e le chiese di borgata, dove ci sono solo i banchi di fòrmica e i muri di cemento armato. I campetti di calcio, le panchine sfondate, gli angoli bui dei vicoli del centro dove la notte gli stolti si fermano a pisciare la loro incontinenza.

Amore per il colore delle nuvole, il vento occidentale, la luce sulle rovine corrose, la musica che suona la pioggia sull’asfalto rotto.

Amore per l’umorismo sornione dei romani, la lingua plebea e mozza come la coda di un gatto randagio, la pazienza quasi cinese con cui il romano sopporta la vicinanza del potere, il cinismo, il disincanto. La fisicità scostumata. La corporeità. 

Odio per la sporcizia, il degrado, il traffico. La bruttezza imperdonabile delle costruzioni fatte dagli anni Sessanta in poi: per soldi e mai pensando alla felicità della gente che dovrà vivere in quelle case senz’anima e in quelle strade storte. Orrore per i prati incolti, le favelas ignorate, le discariche abusive nei giardini, gli alberi morti e le aiuole diventate pattumiere. Avversione per le sedie di plastica dei bar nelle piazze storiche, le stufe a fungo, le paline gialle delle fermate degli autobus grandi come manifesti (le più grandi del mondo, credo), i turisti con i calzoni corti, la canottiera e le infradito. I bus a due piani, i volantini dei ristoranti col menu a prezzo fisso…

Odio chi non rispetta Roma.

E chi non la conosce non la rispetta.

 L’epigrafe di Un giorno perfetto è una citazione di G.W. Bush sulla famiglia, “luogo che fa spuntare le ali ai sogni”. Sembrerebbe un riferimento graffiante e malizioso. È così?

Naturalmente sì. Bush è stato il protagonista del periodo in cui è ambientato il romanzo, e ne è stato anche il deus ex machina e l’ideologo. Perciò era giusto che fosse il presidente a parlare ai lettori in exergo.

Tra l’altro il fatto che sia lui a pronunciare quella frase ne altera il contenuto. Perché è la credibilità di chi parla a dare significato alle parole. E questa ambiguità e inaffidabilità del linguaggio politico ritorna anche nel romanzo.

Il titolo Un giorno perfetto fa riferimento a una vecchia canzone di Lou Reed. Nel testo, inoltre, sono presenti molte altre canzoni in un’ideale colonna sonora della storia. Che rapporto ha con la musica? Qual è la sua musica?

Credo che ognuno di noi abbia nella mente la colonna sonora della propria vita, e che bastino due note a resuscitare un’epoca, un sentimento, un episodio sepolto nel tempo. Per questo volevo che ogni personaggio avesse la sua canzone, e allo stesso tempo che tra le righe suonasse la musica del giorno in cui è ambientato il romanzo – le canzoni passate dalla radio, che resteranno per sempre legate al 4 maggio del 2001. Per me la musica è questo rumore di fondo della vita, è testo contesto e palinsesto della giornata.

Però è anche molto di più. Ci sono musiche assolute, come le sonate di César Franck o di Szymanowski, che devo ascoltare senza fare nulla, nemmeno pensare.

Perciò sono tante le mie musiche: la musica di sottofondo della radio, la musica ritmata – techno, trance, house – che ascolto per trovare il ritmo della scrittura, la musica prediletta – Chopin, Radiohead, Sigur Ros, Amalia Rodrigues, Tanariwen, Skunk Anansie, Cocteau Twins…

La musica per me è plurale – le musiche – come lo è la letteratura.

 Nei suoi libri, si stagliano delle figure femminili, forti, risolute, che difficilmente si dimenticano. Oltre Vita, Marietta in La lunga attesa dell’angelo, Norma ne Il bacio della Medusa. È forse un tentativo di affermare modelli femminili diversi da quelli che contraddistinguono la nostra epoca?

In realtà quando scrivo cerco solo di mettere a fuoco il mio personaggio meglio che posso, di sentirlo, comprenderlo, trovare la sua voce. Non mi chiedo mai se possa risultare ‘positivo’, per così dire, o esemplare. Forse gli unici personaggi femminili davvero forti e vincenti che ho creato sono Medusa e Vita: non a caso due donne di origine contadina, nate povere e divenute benestanti, dall’infanzia durissima, passate attraverso ogni genere di sopraffazioni, e perciò ferite ma coriacee, ferree, invincibili. Le altre, da Norma ad Azra, da Annemarie Schwarzenbach a Emma fino a Marietta Tintoretto, sono figure tenaci e coraggiose però anche fragili, inquiete e incerte, talvolta incapaci di contrastare la deriva della propria vita. Credo che questo le renda vicine a chi legge.

Da parte mia, aver scelto di ambientare alcune delle mie storie (per esempio Il bacio della Medusa o Lei così amata o La lunga attesa dell’angelo) in epoche lontane dalla nostra è anche un modo di confrontarci con ciò che avremmo potuto essere, con ciò che saremmo state se fossimo nate nel tempo di quel romanzo. La storia delle cinque figlie di Tintoretto – due monache, due spose e un’artista dalla reputazione sempre minacciata – è emblematica in questo senso dello spettro limitato di possibilità del destino femminile nel Cinquecento. Spero che le donne di oggi sappiano scegliersi i loro modelli: Marietta Tintoretto, Norma e Annemarie Schwarzenbach, le artiste come loro dimenticate e perse alla storia, le donne finite in manicomio per aver violato le regole del mondo, sono lì a raccontare il prezzo che hanno pagato perché tutte noi potessimo oggi scrivere, dipingere, amare una donna, trasgredire oppure conformarci –  trovarci, insomma…

Quali sono i suoi riferimenti letterari?

Vale un po’ il discorso fatto per la musica. Ci sono libri come rumore di fondo di un’epoca, importanti solo in quel momento e in quella stagione della vita, e libri prediletti una volta per sempre. Autori di cui amo solo un libro (una sola canzone) o tutto, che sento vicini. Autori morti duemila anni fa o ieri, oppure autori contemporanei affini, coetanei o compagni della stessa tribù, anche se non li conoscerò mai. Giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente per le categorie su indicate: La collina dei conigli e I fratelli Karamazov; Carteggio Aspern e Marina Cvetaeva; Ovidio e Alda Merini; Murakami, Peter Esterházy, Kader Abdolah e Christoph Ransmayr…

Che libro sta leggendo in questo momento?

 Ho due libri sul comodino, che assaporo con lentezza perché entrambi chiedono una lettura lenta; ogni sera qualche pagina: vado loro incontro come a un appuntamento. Sono due memoir. Il primo, Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato (da poco ristampato da Quodlibet in edizione integrale), è la rievocazione ossessiva, allucinata, struggente, di un’infanzia remota quasi un secolo, da parte di un’autrice solitaria e ostinata, che esordì a quasi novant’anni, dopo una vita in un certo senso mancata. Il secondo è Ultimo confine del mondo di Lucas Bridges: anche qui l’autore rievoca infanzia e adolescenza lontane decenni e ormai remote. Il libro è del secondo dopoguerra ma solo ora è stato pubblicato in italiano, da Einaudi. L’autore, figlio del primo missionario bianco in Terra del Fuoco, è cresciuto tra gli indios, cacciando guanachi e pilotando canoe, ed è l’ultimo testimone di usi, costumi e credenze di tribù patagoniche che di lì a poco si sarebbero estinte.  Questi due libri antitetici, che sembrano rispettivi manifesti del ‘genere’ in letteratura – femminile che più non si può quello di Dolores Prato, ambientato nel mondo chiuso della provincia, tra stanze, mobili, vicoli, cucine, libro di sguardi ed esplorazione interiore, di pettegolezzi, silenzi e crudeltà psicologiche; la quintessenza del maschile quello di Bridges, ambientato fra mari in tempesta e bufere di neve, fra cacciatori, assassini e avventurieri privi di interiorità – si completano a vicenda e nutrono le mie due anime…  

Quali sono le sue passioni oltre la scrittura?

 Il mare. La pittura. Gli alberi e la dendrologia. Le stelle e l’astronomia. I paguri. Le enciclopedie. Il cervello, il meccanismo del sonno e della memoria (la neurofisiologia). I gatti. Gli aerei, i paracadute, i deltaplani e le macchine volanti (l’ortoelicottero di Fuseri…). Le isole. Lo studio. Il corpo umano. I fiumi. Tutto.

Quali consigli darebbe a chi volesse cimentarsi nella scrittura?

Avere una bella storia da raccontare (una storia che avresti voglia di leggere).

Credere a quello che scrivi (se non ci credi tu, non ci crederà nessuno).

Scrivere come sei (per sapere chi sei veramente).

Avere il coraggio di scrivere controvento.

Avere rispetto per le parole.

Avere l’umiltà di correggersi.

Imparare la pazienza.

Ascoltare tutti, guardare ogni cosa, non giudicare nessuno, non aspettarsi niente.

Intervista a Margaret Doody

È canadese, anglofona, docente di letteratura comparata presso la Notre-Dame University nell’Indiana, USA. Conosciuta al grande pubblico soprattutto per i suoi romanzi gialli che hanno per protagonista Aristotele, il filosofo di Stagira, nelle vesti di uno Sherlok Holmes dell’antichità. Sto parlando di Margaret Doody che è riuscita a coniugare la filosofia con il romanzo poliziesco avvicinando la cultura classica alla gente comune. Anche a lei abbiamo posto le nostre domande, forse questa volta in quantità eccessiva tanto che ha scelto di rispondere solo ad alcune di esse. La ringraziamo molto per essere riuscita a trovare del tempo da dedicare a un blog italiano e ai suoi lettori e anche per averci concesso la ghiotta anticipazione sul nuovo libro di prossima uscita. (english version  english version)

Signora Doody, come è nata l’idea  di scrivere romanzi polizieschi ambientati nell’antichità? E la scelta di Aristotele come detective protagonista?

Una sera stavo rileggendo La Retorica di Aristotele per discuterne con uno studente universitario e poco dopo mi sono messa a letto a leggere un romanzo giallo. A un certo punto sono stata colpita dall’idea che Aristotele, con la sua mancanza di illusioni sulla natura umana e sullo stile di vita ateniese, avrebbe potuto personificare un ottimo Sherlock Holmes. L’idea stava mettendo radici mentre stravo realizzando che nessun altro avrebbe scritto una storia analoga a quella che avevo in mente. Miei colleghi umanisti mi hanno gentilmente incoraggiato ed è così che è nato Aristotele Detective (la mia prima idea sul titolo del romanzo era “La Retorica di Aristotele”, poi modificata in quanto mi immaginavo il rompicapo che ne sarebbe derivato per i librai).

Il suo primo libro, Aristotele detective, è stato scritto negli anni ’70 e pubblicato in Italia solo nel 1999. A che si deve questo lungo lasso di tempo?

Una traduzione in italiano era stata pubblicata (mi pare nel 1980) nei Gialli Mondadori, ma in una versione molto più ridotta. Successivamente Beppe Benvenuto lesse la versione integrale in inglese e convinse Sellerio a pubblicarla. Sono altresì stata fortunata nel trovare la mia favolosa traduttrice, Rosalia Coci.

I suoi libri sono stati pubblicati anche in Grecia. Che effetto le ha fatto vedere le storie scritte proprio nella lingua di Aristotele?

Sono sicuramente felice che la serie sia attualmente pubblicata in greco. Sono a conoscenza dei grandi problemi che l’editore ha dovuto affrontare nella ricerca di un traduttore all’altezza. È inoltre eccitante vedere il romanzo pubblicato nella lingua di Aristotele. Cerco di recarmi in Grecia per lo meno una volta l’anno.

A cosa sta lavorando in questo momento?

Nell’estate-autunno del 2009 ho scritto un nuovo romanzo con Aristotele protagonista, Aristotle and the egyptian murders. Ho da poco firmato un contratto con Sellerio per la sua pubblicazione. È stato meraviglioso lavorare con gli schemi egizi; ho visitato l’Egitto nel 1996 e ho frequentato qualche corso estivo sui geroglifici presso l’università di Londra nel 2000 e nel 2001. Una delle mie principali fonti è stato il mosaico del Nilo a Palestrina.

Conosce l’Italia? L’ha mai visitata? Qual è il suo piatto italiano preferito?

Adoro l’Italia e la visito costantemente, anche se l’ultima volta risale all’estate del 2007 per un colloquio di lavoro a Roma. Molti altri miei viaggi sono stati a Venezia – l’ultima mia opera non romanzesca tratta proprio di questa città e della sua gente “Tropic of Venice”. Adoro la cucina di pesce veneziana e vado matta per la polenta.

Intervista a Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio

E’ appena arrivato nelle librerie, fresco fresco di stampa, Le perfezioni provvisorie, l’ultima fatica letteraria di Gianrico Carofiglio, pubblicata da Sellerio (14 €).

È il quarto della serie di legal thriller che ha per protagonista l’avvocato Guido Guerrieri. I tre precedenti Testimone inconsapevole (Sellerio 2002), Ad occhi chiusi (Sellerio 2003),  Ragionevoli dubbi (Sellerio 2006), oltre ad aver decretato il successo di questo scrittore, vincitore di molti premi letterari italiani e internazionali, lo hanno fatto amare da milioni di lettori.

Nonostante i suoi numerosissimi impegni come magistrato, come scrittore di successo e anche come Senatore della Repubblica, Gianrico Carofiglio si è prestato molto gentilmente a rispondere alle nostre domande per questa intervista che possiamo così pubblicare proprio il giorno dell’uscita del libro.

 

Il suo primo libro è uscito quando lei aveva superato i quarant’anni. Come è arrivato alla scrittura? 

Ho sempre desiderato fare lo scrittore, sin da quando ero bambino. Per molti anni ho avuto paura di provarci. Poi  a un certo punto mi sono reso conto che rischiavo di passare da frasi come: “vorrei fare lo scrittore” a frasi come: “avrei voluto fare lo scrittore”. Questa inquietante percezione è stata l’ultima spinta per cominciare.

Pensa che un magistrato che scrive romanzi gialli abbia qualcosa in più rispetto ai giallisti che non hanno un’esperienza sul campo? 

Beh una certa esperienza del mondo reale in effetti non guasta.

 Che ne pensa della proliferazione negli ultimi anni di noir e gialli?

Non ne penso nulla, in generale. Per me i libri si valutano uno alla volta, verificando se sono scritti bene o male, se raccontano storie buone o cattive.

Come mai, secondo lei il legal thriller non è diffuso nel nostro paese, al contrario di quel che accade negli Stati Uniti e in Gran Bretagna?

Dipende dal fatto che il cosiddetto rito accusatorio (l’unico compatibile con la narrazione di suspense giudiziario) è in Italia relativamente giovane.

Quando scrive un romanzo sa già come va a finire o si lascia trasportare dalla storia e dai personaggi?

La sola cosa che so, quando comincio a scrivere, è come finirà il romanzo. Il resto viene un pezzo alla volta.

Lei è un magistrato e il protagonista dei suoi libri, Guido Guerrieri, è un avvocato. È interessante che abbia scelto la prospettiva dell’altra parte, cioè di chi difende. Che ne pensa?

Penso che attraverso la prospettiva di un avvocato cercavo inconsciamente un punto di vista diverso dal mio, per raccontare con maggiore freschezza. Peraltro è interessante, forse, notare che quest’ultimo romanzo, a differenza dei precedenti, racconta una storia di investigazione. Questo accade adesso che non faccio più l’investigatore e la cosa mi manca. Forse ho sopperito a questa mancanza facendo fare l’investigatore – molto sui generis – a Guerrieri.

Che effetto le ha fatto vedere la trasposizione televisiva e cinematografica dei suoi romanzi? Ritiene giusta le scelta degli attori per i personaggi che lei aveva pensato?

Penso che i due film fossero buoni prodotti televisivi ma che non cogliessero lo spirito dei romanzi e dei personaggi.

Qualcuno ha detto che il ritardo con cui i film sono stati trasmessi in tv era dovuto al fatto che fossero prodotti “qualitativamente troppo raffinati”. Che ne pensa della televisione di questi tempi?

Non abbiamo spazio sufficiente (ride).

Si è anche recentemente cimentato nel graphic novel in collaborazione con suo fratello, l’illustratore e regista Francesco. Ci può raccontare qualcosa di questa esperienza?

Ci siamo divertiti, qualche volta abbiamo litigato e queste sono buone premesse per un lavoro creativo.

Sua madre è la scrittrice Enza Buono. In coda a uno dei libri di lei, Quella mattina a Noto, (Nottetempo) è pubblicato un suo racconto. Come è nata l’idea? Come è stata l’esperienza?

E’ stata un’idea di Ginevra Bompiani. Ci è piaciuto mettere accanto le nostre scritture, così diverse fra loro. L’unica cosa che mi ha dato fastidio è stato sentirmi dire che mia madre è più brava (ride).

Nel suo ultimo libro, Le perfezioni provvisorie, ha introdotto un nuovo personaggio: Consuelo, avvocatessa peruviana, quindi una persona immigrata e ben inserita. Ha un significato particolare?

Può darsi. Ma i significati, nei romanzi, devono trovarli i lettori.

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Diciamo da Tex Willer alla scuola di Francoforte…

Che libro sta leggendo in questo momento?

Democrazia e potere di Norberto Bobbio e un racconto di Erri De Luca.

Tra il suo lavoro di magistrato, quello di scrittore e la sua attività di Senatore della Repubblica, riesce a trovare spazi per passioni e hobbies?

Sicuramente. Il tempo, per fortuna, è una entità elastica.

Quale musica ama ascoltare?

Di tutto, con una preferenza per il rock classico.

Che consigli darebbe a chi volesse intraprendere il mestiere di scrittore?

Somerset Maugham diceva che ci sono tre segreti per scrivere un romanzo di successo. Sfortunatamente nessuno sa quali siano…

I suoi romanzi si svolgono a Bari, lei ne dà una descrizione così bella e al contempo così “vera”, che fa venire davvero voglia di visitarla a chi non l’ha mai fatto: che rapporto ha con la sua città?

Direi esattamente quello raccontato nei miei libri.

Una curiosità: Lei proviene da una regione in cui la cucina ha una tradizione molto marcata. Qual è il suo piatto preferito?

Purè di fave e cicorie.

Com’è l’Italia vista dagli scranni del Senato?

La mia preoccupazione è piuttosto: come sono gli scranni del Senato (o della Camera) guardati dal paese.

Intervista a Luke Rhinehart

Luke Rhinehart è autore di numerosi libri di successo, dai quali sono stati tratti film e documentari. In Italia è noto per L’uomo dei dadi (Marcos y Marcos), un romanzo cult il cui protagonista è uno psichiatra che decide di stravolgere la sua vita ordinata affidando ogni sua decisione, dalla più insignificante alla più importante, al lancio di un dado. Protagonista e testimone dell’esperienza hippy negli anni Settanta, Rhinehart ha accettato di rispondere alle nostre domande su quegli anni e sui suoi libri. Grazie Luke! (english version  english version)

Il libro L’uomo dei dadi è stato scritto nel 1970 ed è uscito in Italia nel 2004: era molto attuale allora e lo è ancora oggi. Come te lo spieghi?

L’uomo dei dadi è stato pubblicato negli anni Settanta in sette o otto paesi europei, ma poi è rimasto nel dimenticatoio per ben venticinque anni, continuando a essere ristampato solo in tre paesi. Poi, con l’inizio del nuovo secolo è successo qualcosa di strano. Senza alcuna spinta pubblicitaria o iniziative mie o del mio agente per promuoverlo, il libro è stato riscoperto. E quindi è stato pubblicato per la prima volta in Spagna, in tutti i paesi dell’Europa dell’Est, in Russia, in Cina, in Turchia, in Tailandia, o ripubblicato in quei paesi nei quali era già uscito negli anni Settanta. Attualmente è in stampa in molte nazioni e sta vendendo in tutto il mondo molte più copie di quanto sia mai accaduto nel corso della sua lunga storia. E il mistero si infittisce quando ci rendiamo conto che questa ripresa non è dovuta alle persone più adulte che si ricordano del libro, ma a una nuova generazione di giovani. Più dell’80% delle email di fan che mi arrivano sono di lettori con meno di 24 anni. Non ho alcuna spiegazione per questo. Il nuovo successo del libro forse deriva dall’aumentata diffusione di internet. L’uomo dei dadi è sempre stato un romanzo cult, uno di quelli che i lettori scoprono grazie all’entusiasmo degli amici. Con internet coloro che trovano il libro eccitante possono dirlo a dieci venti trenta amici, mentre prima il passaparola era molto lento. Comunque, il motivo per cui oggi  è diventato così popolare tra i giovani resta per me un mistero.

Stando alle note di copertina, sappiamo che hai vissuto in due comunità hippy e in almeno due dei tuoi libri parli di questo. Ci potresti accennare alla tua esperienza tra gli hippies?

Parlo dell’anno più importante trascorso tra gli hippies nel romanzo Naked Before the World. Nel 1969-70 ho vissuto con la mia famiglia a Deya, Majorca, e quegli anni sono stati forse il culmine del movimento hippy in tutto il mondo, e Deya e Ibiza ne erano le due capitali. Il libro offre uno sguardo comico sulla battaglia tra l’establishment e gli hippies ribelli. Poiché ero il Direttore Associato del Mediterranean Institute a Deya quell’anno, io in teoria facevo parte dell’establishment. Ma le mie inclinazioni e il mio comportamento tendevano a pormi nella parte opposta. Il Direttore e io non avevamo la stessa posizione riguardo al fumo della marijuana e alle altre tendenze eccessive dei nostri studenti, così in quella primavera risolsi il conflitto prendendo un anno sabbatico, rimanendo a Deya ma non nell’Istituto. Fu allora a Majorca che scrissi la maggior parte de L’uomo dei dadi e del materiale che pochi anni dopo divenne Naked Before the World. Incidentalmente, sembra che prossimamente si farà un film tratto da questo libro, un musical. Sarà girato in parte a Deya o a Cipro, o in un piccolo centro sulla costa italiana, o dovunque si possa realizzarlo nel modo più economico possibile usufruendo, magari, anche di finanziamenti locali.

È da poco uscito negli Stati Uniti il tuo nuovo libro Jesus invades George, nel quale G.W. Bush viene posseduto da Gesù. Come sono diventati gli Stati Uniti con Bush? E che cosa ti aspetti da Obama?

Ho scritto Jesus Invades George: An Alternative History allo scopo di mostrare la natura non cristiana della politica estera americana in Iraq. Gli Stati Uniti, come gli Europei sanno, hanno iniziato sotto Bush ad agire unilateralmente e fare tutto quello che volevano militarmente in ogni luogo del mondo, fabbricandosi giustificazioni e non preoccupandosi di quello che gran parte del mondo pensava. Nella politica interna Bush ha dato vita o ha mantenuto politiche che accrescevano moltissimo le ricchezze di chi era già ricco e impoverivano il resto degli Americani. Il romanzo mostra in modo umoristico quel che potrebbe accadere se Bush fosse posseduto contro la sua volontà dallo spirito di Cristo e dal 2008 cominciasse a richiamare le truppe sia dall’Iraq che dall’Afghanistan, a proporre una legge per l’assistenza sanitaria universale che eliminasse ogni forma di profitto per le assicurazioni e gli ospedali, raddoppiando le tasse ai ricchi per sostenerne i costi. Naturalmente, il resto dell’establishment politico è inorridito e si muove per fermarlo fino ad assassinarlo. Ho pubblicato il libro nell’estate del 2008, prima che Obama o McCain fossero scelti come candidati. Nell’ultima parte del romanzo descrivo quel che succede alla fine del 2008 e nel 2009. Prevedo la candidatura di Obama e la sua l’elezione legata ai problemi dell’economia. Ma prevedo anche che Obama non avrebbe ridotto il budget della difesa, non avrebbe apportato grandi modifiche al sistema sanitario e non avrebbe fatto niente per opporsi alla lobby israeliana, per tentare di ridurre le sofferenze dei Palestinesi o favorire la pace in Medio Oriente. In generale anticipo anche che sarebbe stato schiacciato dal sistema politico e dall’establishment americano e che avrebbe continuato ad mettere in pratica le politiche cooperative delle precedenti amministrazioni. Mi deprime vedere che le mie previsioni su un Obama incapace di cambiare le cose in modo significativo sembrano diventare realtà.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

I miei scrittori preferiti variano di decennio in decennio, di anno in anno. Molti di quelli che mi piacevano quando ero un uomo giovane (tutti autori europei) mi sembrano oggi poco interessanti, non perché lo siano in generale in questa epoca, ma perché ora sono un uomo vecchio e differente da quel che ero e quei libri non parlano più ai miei desideri o ai miei interessi. Li considero ancora dei grandi romanzi, ma so che non sono più i miei “preferiti”. E penso che sia importante rendersi conto che quasi ogni scrittore ha un’evoluzione nei libri che ama. L’uomo dei dadi è un libro per una persona giovane e immagino che sia estremamente raro che qualcuno di oltre quarant’anni possa scoprirlo e trovarlo eccitante e provocatorio. Scommetto che se qualcuno che lo ha apprezzato negli anni Settanta prova a rileggerlo ora non riuscirà a finirlo. Noi cambiamo e quindi cambiano i nostri gusti e i nostri libri preferiti. 

Che consigli puoi dare a chi vorrebbe darsi alla scrittura? 

Scrivi se ti dà piacere farlo. Altrimenti fai qualcos’altro. E mostra quel che hai scritto al maggior numero possibile di persone diverse. Tutti mentiranno riguardo al loro giudizio, ti diranno quanto tutto è bello, ma se tu ascolterai abbastanza bugiardi comincerai a capire quando un pezzo è veramente buono, più che se i tuoi lettori saranno soltanto “gentili” nell’esprimere i loro giudizi. 

Intervista a Michael Zadoorian

michael zadoorian

Sono stati i librai americani a trasformare Michael Zadoorian in un autore di culto. Dopo Second Hand, la consacrazione è arrivata con In viaggio contromano, storia semplice e straordinaria di due ottantenni che si tuffano sulle strade d’America a caccia di un finale non scontato per la propria vita. Negli States è uscita in aprile una sua raccolta di racconti, The Lost Tiki Palaces of Detroit che vedremo prossimamente anche nelle nostre librerie.

Ringraziamo Michael Zadoorian per aver avuto la pazienza di rispondere alle nostre domande. (english version english version)

 

Per i protagonisti di The Leisure Seeker, Ella e John, ti sei ispirato a qualcuno in particolare?

Il libro si ispira ai miei genitori. Certo, a mano a mano che andavo avanti nella scrittura emergevano nuovi aspetti delle personalità dei personaggi, le storie cambiavano e, per certi versi, i protagonisti si sono un po’ differenziati dai miei genitori, ma loro sono stati il punto di partenza.

Al centro della storia raccontata in quel romanzo c’è un viaggio in camper. È un modo di viaggiare che tu ami particolarmente?

Negli ultimi tempi non mi è più capitato, ma per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza insieme ai miei genitori abbiamo girato e viaggiato con un camper Apache con tetto a soffietto. Quelle esperienze hanno sicuramente influenzato il libro.

In una fase storica in cui il messaggio che passa dai media è che non si può invecchiare, con conseguente boom del ricorso alla chirurgia estetica, tu hai posto come protagonisti del libro due persone vecchie e malate. Qual è il tuo rapporto con il tempo che passa e con l’invecchiamento?

È lo stesso di tutti, credo. Inevitabilmente il tempo passa e si invecchia: spero di continuare a farne esperienza. Penso che in America un libro su due persone vecchie e malate sia difficile da vendere. Io l’ho sottoposto a circa 40 agenti letterari prima di trovarne uno che si entusiasmasse alla storia. Ma quell’uno è stato sufficiente.

In Second Hand il protagonista è un maniaco dei mercatini delle pulci e dei garage sale. C’è qualcosa di autobiografico in questo?

Temo di sì. La casa in cui vivo con mia moglie nell’area di Detroit è piena di oggetti recuperati in botteghe di cianfrusaglie, sgomberi da case in vendita, negozi vintage, ecc. Ci deve essere qualcosa in tutta questa roba che semplicemente mi parla.

Quali sono gli scrittori che ami maggiormente?

Sono stato molto influenzato dai racconti brevi di Raymond Carver. Il suo lavoro mi ha permesso di comprendere degli aspetti profondi della scrittura come mai mi era accaduto prima. Non so perché, ma Carver mi ha fatto pensare che forse anche io potevo scrivere fiction. Il suo lavoro, come quello di tanti altri scrittori di straordinario talento, ti fa sembrare che scrivere sia facile. Spence and Lila di Bobbie Ann Mason è un bel libro su una coppia di anziani che ha avuto una notevole influenza su In viaggio contromano, così come Mrs Bridge di Evan S. Connell. Forse, il libro della Mason somiglia al mio molto di più di Mrs Bridge, ma c’era qualcosa in quest’ultimo a cui continuavo a fare riferimento, una sorta di silenziosa disperazione comica che sentivo giusta.

Che libro stai leggendo in questo momento?

La macchia umana di Philip Roth e un racconto pulp degli anni Cinquanta di Harold Livingston intitolato The Detroiters

A che cosa stai lavorando adesso?

Sto scrivendo un nuovo libro, ma preferisco non parlarne.

Oltre la scrittura, quali sono le tue passioni?

Sono elencate nella mia pagina di Facebook: libri, musica, fotografia, tiki, folk art, cibo, bevande, cultura pop, cultura junk, culture delle droghe, cultura beat, il Noir, The Days of the Dead (El Día de los Muertos), i cimiteri, Detroit.

Che consigli daresti a chi volesse intraprendere il mestiere di scrittore?

Non credo molto ai consigli. Basta sedersi e scrivere. E il resto viene dopo.

Sappiamo che hai fatto un tour in Italia per presentare i tuoi libri. Che impressione hai potuto ricavare, pur in tempi così ridotti?

Non c’è bisogno di dirlo, l’Italia mi è piaciuta. Purtroppo, con tutti gli spostamenti che ho fatto, non ho potuto vedere molto. Negli ultimi otto giorni ogni giorno sono stato in una città diversa. Il programma era: viaggiare la mattina; incontrare un nuovo gruppo di persone che mi portava in giro; andare nella mia stanza a fare un sonnellino; cena; presentazione in una libreria o in una sala di altro tipo. La maggior parte dell’Italia l’ho vista attraversi i finestrini del treno, dell’aereo o dell’automobile. Ma è stata una grande esperienza che mi ha permesso di conoscere tantissime persone meravigliose.

Sei stato colpito da qualcosa in particolare?

Sono stato molto colpito dalle domande profonde che mi sono state rivolte riguardo i miei libri. È stato un piacere conversare con lettori così seri. Soprattutto sono stato impressionato dal Festival della Letteratura di Mantova. È stato bellissimo avere intorno così tante persone che amano libri e scrittori. Mi sono sentito come una rock star.

Che feedback hai ricevuto dai lettori italiani?

Mi sono meravigliato ed eccitato nel vedere quante persone apprezzavano il mio lavoro. Molti elogi e molta gentilezza. Abbiamo avuto ben 600 persone alla presentazione di Mantova! Credo che abbia contribuito il fatto di avere pubblicato in Italia due romanzi in due anni. Negli Stati Uniti, dove sono passati nove anni tra l’uno e l’altro, non ho potuto avere il lancio di cui ho goduto nel vostro paese. Mi fa piacere segnalare, inoltre, che il prossimo anno l’editore Marcos y Marcos pubblicherà una raccolta di miei racconti intitolata The lost tiki palaces of Detroit. E anche questo mi eccita molto.

Intervista a Lizzie Doron

Lizzie Doron

Lizzie Doron

E’ una scrittrice israeliana, appena tornata da un tour in Italia durante il quale ha ricevuto vari premi e riconoscimenti; autrice di due piccoli capolavori editi da Giuntina di cui abbiamo già avuto occasione di parlare nel blog: Perché non sei venuta prima della guerra e C’era una volta una famiglia.

Si chiama Lizzie Doron e ha la capacità di parlare della shoà in modo del tutto diverso da quello a cui siamo abituati in Europa. Il pesante bagaglio dei sopravvissuti ai campi di sterminio, in questo caso emigrati in Israele, è una cappa di cupezza riversata sui loro figli, che crescono con le storie terribili del mondo di là, e la guerra vissuta nel mondo di qua.

Ancora una volta abbiamo la conferma che oltre ai sei milioni di ebrei morti nei campi, ci sono i sopravvissuti, milioni di feriti gravi di cui si parla poco, o affatto. 

Ringraziamo Lizze Doron per averne parlato nei suoi libri, e anche per aver avuto la pazienza di rispondere alle nostre domande.

Speriamo in questo modo di offrire ai lettori del blog l’opportunità di conoscere più a fondo l’Autrice e il suo background. (english version english version)

Com’era per una bambina vivere immersa in quelle sofferenze e circondata da tutte quelle persone ferite e bizzarre?

Da bambina non avevo alcuna idea sull’eventualità che ci potessero essere altre opzioni su come vivere l’infanzia.

Quanti anni aveva quando sua madre le raccontò le proprie esperienze in Polonia?

Mia madre non mi ha mai raccontato nulla. La sua storia si doveva tenere sotto silenzio; per questo per me il silenzio è stato il problema principale. Il suo silenzio è stato il mio incubo che sognavo di sconfiggere.

In Israele sono stati pubblicati altri due suoi libri oltre ai due editi in Italia. Può accennarci di che trattano?

Il terzo è un addio alle persone anziane che vivevano in quel quartiere. Io racconto le storie ascoltate per anni da bambina dal parrucchiere. La maggior parte narra della loro vita prima e durante la shoà.

Helena si erge nei suoi libri quasi come una figura epica, ferita ma mai doma, fedele ai suoi valori e ai suoi principi. Che eredità le ha lasciato? 

Ops! Questo è il problema! Credo che per una risposta avremmo bisogno di un buono psicologo! 

Dai suoi libri si evidenzia che alle sofferenze patite in Europa, per i sopravvissuti alla Shoa si sommavano i lutti e il dolore arrecati dalle guerre nel “paese di qua”, cioè Israele. Lei è fiduciosa circa una soluzione pacifica della questione mediorientale e sulla possibilità di convivenza pacifica tra le popolazioni coinvolte?

Veramente no.

Oltre la scrittura, quali sono le sue passioni?

La lettura.

Quali sono gli scrittori che ama maggiormente?

Dipende sia dal mio umore cha da altri fattori. In questo momento Molina è il mio preferito. Tra gli autori italiani mi piacciono Natalia Ginzburg e Mariolina Venezia. Dei tedeschi, Ingeborg Bachman e Franz Werfel; della letteratura ebraica Shalom Aleichem è il mio numero uno, ma fondamentalmente leggo di tutto e amo scoprire nuovi e giovani scrittori.

Che libro sta leggendo in questo momento?

La vista da Castle Rock di Alice Munro.

A che cosa sta lavorando adesso?

Ho appena finito di scrivere la storia dei segreti di mio padre, e sto lavorando a un libro che narra la storia di un amico palestinese e dei nostri sforzi e delle nostre difficoltà per essere amici a dispetto di tutto. 

Lei ha vissuto alcuni anni in un kibbutz. Qual è la sua opinione su questo tipo di esperienza oggi?

Forse anche lei sa che il sogno socialista non funziona più, così oggi il kibbutz come era dagli anni ’50 agli anni ’80 è solo un sogno nostalgico. E questo naturalmente mi dispiace moltissimo.

Al ritorno dal suo tour in Italia, può dirci che impressioni ha avuto del nostro Paese e degli Italiani? Si era creata delle aspettative? Sono state rispettate?

L’Italia era ed è tuttora il mio Paese europeo preferito.

Al di fuori dell’ambiente ebraico, che reazioni e che feedback le sono arrivati dai lettori italiani dei suoi libri? 

Gli Italiani in generale sono aperti e caldi. Come sa, non solo in letteratura… quindi non c’è una vera differenza tra la Comunità Ebraica in particolare e gli Italiani in generale… In ogni caso la Comunità Ebraica è sicuramente più coinvolta nella politica mediorientale il che fa emergere spesso delle difficoltà che non incontro negli altri Italiani.

Intervista a Peter Cameron

peter-cameron

Da un suo romanzo, Quella sera dorata, è stato tratto il film di James Ivory The city of your final destination che è stato appena presentato al Festival del Cinema di Roma. Lui è Peter Cameron, scrittore statunitense, i cui libri sono stati pubblicati da Adelphi. Oltre a quello già citato, uscito nel 2006, ha scritto Un giorno questo dolore ti sarà utile (2007) e la raccolta di racconti Paura della matematica (2008). È uno scrittore che con toni leggeri e con dialoghi brillanti tratta temi profondi e delicati.

Peter Cameron ha accettato di rispondere ad alcune domande per il nostro blog.

Di questo lo ringraziamo. (english version english version

In Quella sera dorata fai dire ad Adam: “Lo charme si guasta con l’età, come la bellezza. Entrambi sono preziosi da giovani; da vecchi c’è ben poco che possano comprare. Non mi importa di essere vecchio e brutto”. Qual è il tuo rapporto con il tempo che passa e con l’invecchiare? 

Su questo argomento non ho riflettuto molto in termini personali. Da un punto di vista teorico mi accorgo che sto diventando più adulto, ma poiché questo accade a tutti quelli che mi stanno intorno, non me ne rendo conto veramente, né me ne preoccupo. Sono quasi arrivato ai cinquanta, perciò credo che comincerò sempre più ad avvertire gli effetti del tempo che passa. Mi sono sempre sentito in armonia con me stesso; sono ancora in contatto con il bambino che sono stato così anche se cresco e divento più adulto in un certo senso resto fondamentalmente sempre lo stesso. E non sono necessariamente d’accordo con Adam (accade molto spesso che io non sia d’accordo con quello che dicono i miei personaggi). Penso che le persone, sia uomini che donne, che invecchiano con grazia, senza resistere agli anni che passano (per esempio con la chirurgia plastica) siano di gran lunga più belle e più affascinanti delle persone più giovani.

James, il protagonista di Un giorno questo dolore ti sarà utile, dice che non gli piacciono i suoi coetanei, che l’idea di trascorrere quattro anni di college con essi rappresenta un incubo per lui. C’è qualcosa di autobiografico? Che tipo di teenager sei stato?

Quando ero un teenager ero molto simile a James, ma ho fatto grandi sforzi per riuscire a socializzare con gli altri. Ero timido e solitario, ma non così misantropo come lui; mi piacevano le persone intorno a me, ma mi sentivo lontano da loro.

In Un giorno questo dolore ti sarà utile sono davvero molto divertenti le descrizioni delle sedute di psicoterapia di James. Riferendosi alla dottoressa Adler, egli dice: “È come parlare a un pappagallo o a un lobotomizzato”. Qual è la tua opinione sulla psicoterapia?

Ho avuto esperienza sia della psicoterapia che dell’analisi, fondamentalmente si sono rivelate positive e produttive; sono riconoscente per gli effetti che tale percorso ha avuto su di me e sulla mia vita. Ma mentre è in corso, la psicoterapia può apparire molto frustrante e a volte ridicola. E poiché James è resistente all’idea della terapia, aveva senso per me che si focalizzasse solo su tutto quello che sembra assurdo di essa. Spero tuttavia che il lettore colga che nonostante le sue resistenze, le conversazioni con la dottoressa Adler gli sono utili e lo aiutano ad acquisire nuove consapevolezze.

Proprio in questi giorni è stato presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Roma il film The city of your final destination tratto dal romanzo Quella sera dorata e diretto da James Ivory. Come ti sei sentito guardando il film? Come hai trovato il passaggio dal libro al film? E gli interpreti hanno dato vita a personaggi così come tu li avevi immaginati?

Come credo accada a molti scrittori, sono deluso dalla versione cinematografica del mio libro. Poiché scrivo in modo molto visivo, ho sempre nella mia testa un film perfetto di tutti i miei libri che, ovviamente, non potrà mai corrispondere a quello che arriva sugli schermi cinematografici. Penso comunque che James Ivory sia riuscito perfettamente a rendere il mondo e l’atmosfera del mio romanzo, che Charlotte Gainsbourg interpreti una bella e affascinante Arden. E che Hiroyuki Sanada sia molto giusto come Pete.

Il titolo Un giorno questo dolore ti sarà utile è una citazione di Ovidio. Come mai questa scelta?

Ho pensato che la citazione di Ovidio potesse render conto in modo molto eloquente del dolore dell’adolescenza. Se noi riusciamo a reggere di fronte al dolore che proviamo da giovani, questo ci può aiutare a diventare degli adulti più sensibili ed empatici.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

I miei autori preferiti sono William Maxwell, Denton Welch, Shirley Hazzard, James Salter, Rose Macaulay e Millen Brand.

E il libro che ami di più?

Ho stilato una lista dei miei dieci libri preferiti che è stata pubblicata nel libro The Top Ten: Writers Pick Their Favorite Books, curato da J. Peder Zane (http://www.toptenbooks.net). Essi sono (in ordine alfabetico):

Nebbia di Millen Brand

La casa del professore di Willa Cather

Lo zio Vania di Anton Cechov

The Evening of the Holiday di Shirley Hazzard

The Towers of Trebizond di Rose Macaulay

The Chateau di William Maxwell

Quartetto in autunno di Barbara Pym

Light Years di James Salter

What’s for Dinner di James Schuyler

Voce da una nube di Denton Welch

Che cosa stai leggendo in questo momento?

Ho appena finito di leggere Il cercatore d’oro di J.M.G. Le Clezio e ora sto leggendo The Honeymoon di Patrick Modiano.

A che cosa stai lavorando in questo periodo?

Sto scrivendo un libro che contiene due racconti lunghi che si intitola Certain Persons.

Quali sono le tue passioni, oltre la scrittura?

La lettura, il teatro, New York, i cani, l’arte e dormire.

Che musica ami ascoltare?

Non ascolto la musica molto spesso, ma quando lo faccio amo sentire persone che cantano belle canzoni.

Che consiglio puoi dare a chi vorrebbe darsi alla scrittura?

Leggere e sognare.

Che cosa pensi dell’assegnazione del Nobel per la pace a Barack Obama?

Spero che questo premio precorra tutto quello che lui riuscirà a ottenere.

quella sera doratapaura della matematicaun giorno

Intervista a Patrick Fogli

patrick fogli

Patrick Fogli, bolognese, classe 1971, si è ormai affermato come uno degli autori più interessanti di romanzi noir ma non solo nei quali vengono affrontati temi politici e sociali di grande risonanza. Tra i suoi titoli: Lentamente prima di morire (Piemme), L’ultima estate di innocenza (Piemme), Fragile (Perdisa Pop), Il tempo infranto (Piemme), Vite spericolate (Edizioni Ambiente).

Lo ringraziamo per aver accettato di rispondere ad alcune domande per le lettrici e i lettori del Blog delle Ragazze.

Le storie che racconti nei tuoi libri incrociano temi forti: la guerra in Iraq, i danni ambientali per la salute, il terrorismo, la violenza sui bambini. Da dove viene questo tipo di scelta?  

Dalla voglia di raccontare la quotidianità, quello che vedo, il mondo che mi circonda. O, nel caso del terrorismo, quello che non si racconta mai, che viene tenuto chiuso in un cassetto. Non credo neppure che sia una scelta, semplicemente sono le storie che mi vengono in mente. Che non trovo come lettore e, quindi, mi scrivo da solo. 

In una fase storica in cui le donne sono ridotte e rappresentate come meri oggetti sessuali, i tuoi personaggi femminili sono invece risoluti, forti, decisivi. Non ritieni di essere un po’ controcorrente?

No e per un motivo molto semplice. Non credo affatto che le donne siano come vengono rappresentate e – hai detto bene – ridotte. Non voglio raccontare uno stereotipo, voglio raccontare delle persone. Mi ribello all’idea che la donna sia un oggetto sessuale.

In L’ultima estate di innocenza la musica sembra avere un ruolo centrale, le vicende sono accompagnate da una sorta di colonna sonora costituita dai pezzi che i vari personaggi ascoltano di volta in volta. Qual è la tua musica?

Un po’ tutta. Sicuramente quella che ascoltano i miei personaggi, anche se a volte è semplicemente il pezzo giusto per la situazione. Quello che il personaggio ascolterebbe. Vado dalla classica all’heavy metal. Nel mezzo c’è un po’ di tutto. A parte le passioni sfegatate per Springsteen e per quel (poco) che resta degli U2.

A un certo punto del libro scrivi: “Presi dalla quotidianità, dai problemi, dai dolori, dalle aspettative sempre tradite, abbiamo smesso di interessarci davvero a quello che ci succede intorno. Abbiamo delegato il nostro pensiero a qualcun altro che ci dice chi siamo, cosa dobbiamo mangiare, pensare, desiderare, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Siamo dentro un brutto film di fantascienza che nessuno andrebbe a vedere, ma che tutti ci accontentiamo di vivere come realtà”. Secondo te, quanto manca alla fine di questo film? Sei fiducioso riguardo il futuro del nostro paese?

Non credo che questo film finirà. Potrà evolversi, potrà cambiare, potrà forse attenuare alcune sue forme, ma non penso sia possibile tornare indietro. L’operazione che – volutamente o no – è stata fatta sulla società italiana è culturale e destinata a rimanere. Forse, semplicemente, ha tirato fuori una parte di quello che siamo, accentuando toni, esasperandone altri. Ma non penso che sia reversibile. Se sono ottimista? Per natura sì, riguardo alla tua domanda non tanto. Se immagino oggi fra un anno non vedo qualcosa di meglio.

Quali scrittori ritieni abbiano influenzato la tua scrittura?

Qualunque libro che ti colpisce ti resta dentro e lascia qualcosa. Stilisticamente non saprei, scrivo come mi viene e non credo di aver mai (volutamente) tentato di imitare qualcuno. Però le influenze penso siano tante, sono un lettore bulimico.

Che libro stai leggendo in questo momento?

Come mi capita negli ultimi anni, prima di iniziare a scrivere non leggo narrativa. Ho sul comodino le lettere luterane di Pasolini. L’ultimo romanzo che ho letto è Le confessioni di Max Tivoli di Andrew Sean Greer che straconsiglio.

E che libro stai scrivendo?

Scrivendo nulla. “Quasi scrivendo” un’altra storia di terrorismo. In sintesi la storia di uno dei personaggi minori de Il tempo infranto.

Hai dei consigli da dare a chi vorrebbe avvicinarsi alla scrittura?

Leggere tantissimo e chiedersi se ha davvero una storia da raccontare. Poi, leggere tantissimo e provare a raccontarla. Esattamente come gli viene.

Sei un ingegnere e ti occupi di informatica e del web. Qual è la tua opinione riguardo i social network, per esempio Facebook, le loro potenzialità e l’uso che se ne fa?

La potenzialità è enorme. Anche se bisogna sempre ricordarsi che il mondo reale è oltre la tastiera di un computer. L’uso, invece, è importante. Per quanto riguarda Facebook, per esempio, è un enorme strumento di promozione e di contatto. Però tende parecchio a farsi i fatti tuoi, se gliene dai la possibilità. Diciamo che va usato con la testa accesa.