archivio | 7 marzo 2013

La bambina sieropositiva curata: i veri dettagli del caso

hivHo aspettato qualche giorno per parlare del caso della bambina statunitense già sieropositiva e “guarita” di cui hanno riferito tutti i giornali, perché volevo prendere visione diretta dei dettagli così come sono stati presentati alla 20th Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections in Atlanta, Georgia.

C’è sempre la possibilità, infatti, che i media travisino i termini e diano un quadro diverso da quello reale.

I fatti sono questi.

Nel luglio 2010 nasce una bambina alla 35° settimana di gestazione da una madre con HIV che non era stata sottoposta alla profilassi per ridurre, ma si può dire eliminare, il rischio che il figlio nasca sieropositivo. Alla luce di questo, i medici decisero di iniziare a 30 ore dalla nascita una terapia con tre farmaci, che rappresenta un attacco molto più massiccio in confronto all’unico farmaco che solitamente si dà per profilassi nel primo mese di vita.

A scanso di dubbi, venuti anche a me, che potesse trattarsi di una diagnosi iniziale errata, i medici hanno precisato che la bambina era risultata positiva più volte e con una metodica molto affidabile (PCR). I valori della viremia (il numero di copie di virus per unità di misura di sangue) controllati nelle prime tre settimane confermavano la presenza dell’infezione, anche se risultavano in discesa (fino a meno di 50). Il trattamento è proseguito fino al gennaio 2012, quando cioè la bambina aveva 18 mesi.

Nell’autunno successivo HIV non era rilevabile, cioè era al di sotto delle 20 copie e non vi era presenza di anticorpi, che normalmente segnalano la sieropositività e che non spariscono mai.

Oggi la bambina continua a non assumere farmaci e i valori della viremia sono tuttora non rilevabili. Mentre, in genere, la sospensione della terapia provoca una nuova e rilevante replicazione virale.

Questo dunque è il primo caso ben documentato di un bambino con infezione da HIV che è stato, come sottolineano gli infettivologi, “funzionalmente curato”. La definizione viene usata per intendere il fatto che resta comunque una presenza del virus, seppure minima, e per distinguere da cura sterilizzante, che presuppone una eradicazione completa di ogni traccia virale dal corpo, come accadde a un uomo sieropositivo trattato con trapianto di midollo per leucemia. Il donatore del midollo aveva una rara mutazione genetica dei globuli bianchi che rende alcune persone resistenti a HIV; la mutazione passò all’uomo sieropositivo insieme al midollo.

Quali sono le implicazioni di tutto questo?

Certamente che non è stata ancora trovata “la” cura, quindi smorziamo gli entusiasmi o, peggio, evitiamo di correre rischi “tanto non c’è più da temere”. Se vi sembra impossibile che qualcuno possa avere una reazione di questo tipo, sappiate che è stata rilevata in molte persone già all’apparire dei farmaci più efficaci a bloccare la progressione dell’infezione.

Il prossimo passo, spiegano gli autori della presentazione, sarà scoprire se si tratta di una risposta altamente inusuale alla terapia iniziata così precocemente o qualcosa che può essere riprodotto in altri neonati ad alto rischio.

Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, figura storica nella lotta ad HIV, ha sottolineato che il caso mostra l’importanza di un inizio tempestivo della terapia al fine di evitare la formazione nelle persone di serbatoi di virus che alimentino l’infezione.

Dunque un passo importante, ma c’è ancora tempo per i trionfalismi.